Covid-19: Arriva lo scudo penale per responsablità sanitaria da somministrazione del vaccino7/4/2021 Il decreto legge numero 44/2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1° aprile 2021, ha introdotto uno scudo penale per il personale sanitario che somministra il vaccino anti SARS-CoV-2, che non può essere chiamato a rispondere dei reati di lesioni personali colpose e omicidio colposo per i fatti verificatisi in conseguenza di tale attività. L’articolo 3 del decreto-legge 44/2021 stabilisce testualmente che “per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARSCoV -2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”. Si tratta dello “scudo penale” invocato da medici e personale sanitario per proteggersi dagli assalti giudiziari (più o meno in buona fede) di persone che hanno subito danni a causa della somministrazione del vaccino. L’idea dello “scudo penale” venne inizialmente concepita nell’ambito del dossier Ilva come forma di garanzia per Arcelor Mittal che poneva, appunto, la protezione da rinvii a giudizio come condizione per far ripartire gli impianti. La norma risultante prevedeva la non responsabilità penale dei vertici aziendali che applicavano il piano ambientale nella gestione degli altoforni. L’analogia concettuale con lo scudo penale Covid è evidente: così come i manager Ilva non sono responsabili penalmente se attuano il piano ambientale, non è penalmente responsabile (peraltro, solo per omicidio colposo e lesioni) chi somministra il vaccino “secondo le regole”. Questo “scudo” tuttavia, come quello Ilva, è fatto di cartone e dunque cederà di fronte al primo colpo assestato da (parenti delle) vittime e pubblici ministeri almeno per tre motivi: nessuna legge può impedire a un magistrato di indagare sulle modalità concrete di uso del vaccino, nessuna legge può eliminare la responsabilità di un medico che sbaglia con colpa grave una diagnosi, nessuna legge può eliminare il diritto al risarcimento del danno per negligenza professionale. Nessuna responsabilità per l'“uso conforme”. Un solo articolo, il numero 3, dedicato dal decreto appena entrato in vigore al tema dello scudo penale: suona un po' come un contentino perchè, a leggere bene la norma, la sua portata è alquanto ristretta sia temporalmente, sia sul versante oggettivo. Costruita secondo lo schema delle cause di non punibilità, l'esenzione da responsabilità riguarda, come si deduce dal richiamo degli articoli 589 e 590 c.p. sia la fattispecie di lesioni, sia quella di omicidio colposo. Non è chiara la ragione per la quale non si è rimandato alle condotte descritte nell'art. 590-sexies c.p., introdotto nel 2017 proprio per delimitare i confini della responsabilità colposa in ambito sanitario (anche in questa norma, come è noto, vi è al secondo comma una causa di esclusione della punibilità per imperizia, nel caso in cui le linee guida adatte al caso concreto siano rispettate). Siamo di fronte ad una svista del legislatore d'urgenza, o il rimando alle norme “comuni” in tema di omicidio e lesioni colpose si giustifica in altro modo? Lo scudo penale opera soltanto nel caso in cui l'evento lesivo o mortale sia stato cagionato dalla somministrazione di un vaccino anti-COVID. E qui si entra nell'argomento più dibattuto, che è appunto quello della ravvisabilità di un nesso eziologico tra la vaccinazione e la reazione avversa: inutile sottolineare che si tratta dell'aspetto più controverso, talvolta considerato con fredda rassegnazione come un male minore da annegare nella logica dei grandi numeri. Soprattutto è una questione di pressocchè totale appannaggio degli accertamenti tecnici volta per volta necessari, con tutte le conseguenze in termini di univocità che ben possiamo immaginare. La norma che manda esenti da responsabilità non ha una efficacia illimitata nel tempo: si riferisce espressamente alla campagna vaccinale straordinaria tutt'ora in atto e, in ragione di questa specifica indicazione, va escluso che – fatti i debiti scongiuri – dietro questo “scudo” ci si possa riparare nel corso di future, eventuali altre campagne di vaccinazione. Andiamo alle condizioni oggettive che devono sussistere: occorre che l'uso del vaccino sia conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione al commercio e alle circolari pubblicate dal Ministero della Salute. E' senz'altro la parte meno chiara della norma, la più oscura proprio perchè generico e incondizionato è il richiamo a queste “indicazioni”. Soprattutto non si specifica quale valore ad esse debba assegnarsi. Va infine detto che lo scudo si limita a proteggere i sanitari dalla responsabilità penale, ma non da quella civile. Quest'ultima, infatti, non è contemplata, con la conseguenza che, con riferimento ad essa, operano le regole ordinarie, anche durante la straordinaria fase della vaccinazione contro il coronavirus.
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Covid: l'autocertificazione falsa non è reato
Per il Gip del tribunale di Reggio Emilia, i DPCM sono fonti secondarie che non possono limitare la libertà personale, non commette falso ideologico quindi chi non dice la verità nell'autocertificazione
Falso ideologico per l'autocertificazione falsa in zona rossa? Non commette falso ideologico chi nell'autocertificazione dichiara il falso per motivare l'uscita di casa durante la pandemia da Covid19 perché i DPCM sono fonti di rango secondario che non possono limitare la libertà personale. Solo un provvedimento del giudice in forza di legge può disporre l'obbligo di permanenza domiciliare come misura cautelare o sanzionatoria, ma in casi specifici. Queste le conclusioni esposte dal GIP del Tribunale di Reggio Emilia nella sentenza n. 54/2021 (sotto allegata) che va ad aggiungersi alle ormai numerose pronunce della giurisprudenza sulle misure restrittive attuate in tempi di pandemia. La vicenda Il Pubblico ministero chiede l'emissione del decreto penale di condanna di due imputati a cui è stato contestato il reato di cui all'art 483 c.p. che punisce la falsità ideologica del privato in un atto pubblico. Reato che il P.M ritiene integrato in quanto la donna, compilando formale autocertificazione, ha attestato falsamente ai Carabinieri di essere andata a fare degli esami clinici, accompagnata, mentre dai controlli effettuati è emerso che la signora non ha fatto alcun accesso all'ospedale. Obbligo di permanenza domiciliare: misura restrittiva della libertà personale Il GIP respinge la richiesta del PM, ritenendo di doversi procedere al proscioglimento per diverse ragioni. Prima di tutto l'obbligo di provvedere alla compilazione dell'autocertificazione per giustificare lo spostamento è previsto dal DPCM datato 08.03.2020. Tale provvedimento, che limita e vieta lo spostamento delle persone tra i territori in esso indicati, per il GIP è illegittimo, perché sostanzia un obbligo di permanenza domiciliare, misura sanzionatoria o cautelare che restringe la libertà personale e che solo il giudice può irrogare per punire certi reati o per evitare che l'indagato ne commetta ulteriori. Sanzione o misura che in ogni caso vengono disposte all'esito di un procedimento e in presenza di determinati presupposti di legge. Il Gip ricorda che la Corte Costituzionale ha considerato misure restrittive della libertà personale situazioni ben più lievi di quella oggetto di contestazione:
Si ricorda infatti che l'art. 13 della Costituzione prevede che "le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge." DPCM fonti regolamentari di secondo grado, non possono limitare la libertà Alla luce del suddetto articolo della Costituzione per il GIP un DPCM non può limitare la libertà personale perché norma regolamentare di grado secondario e non atto normativo con forza di legge. L'art. 13 della Costituzione prevede inoltre una doppia riserva, una legislativa e una giurisdizionale. Solo un provvedimento del giudice infatti può incidere sulla libertà personale di un soggetto, nei soli casi stabiliti dalla legge. Il giudice deve disapplicare l'atto amministrativo illegittimo Trattandosi di fonti secondarie, regolamentari, non è necessario che il giudice sollevi questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 13 Costituzione da parte dei DPCM. Costui deve solo procedere alla loro disapplicazione perché illegittimi per violazione di legge. La libertà personale non va confusa con quella di circolazione Per il GIP non regge la tesi di coloro che ritengono legittimo il DPCM perché limita la libertà prevista dall'art. 16 della Costituzione che prevede la libertà di circolazione e non l'art. 13 che contempla quella personale. Come ha chiarito la Corte Costituzionale "la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio, l'affermato divieto di accedere ad alcune zone, circoscritte che sarebbero infette, ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare." Si tratta evidentemente di due libertà distinte, che non possono essere confuse, perché quando la libertà non riguarda i luoghi, ma le persone si rientra nel campo della libertà tutelata dall'art. 13 della Costituzione. Autocertificazione: se il DPCM è illegittimo il falso ideologico non sussiste Per quanto riguarda quindi il caso di specie, il GIP evidenzia che il DPCM del 08.03.2020, che si ritiene violato dai due imputati, prevede l'obbligo di compilare e sottoscrivere un'autocertificazione per motivare il proprio spostamento, in totale contrasto con i principi sanciti da uno Stato di diritto. Se però come affermato sopra, il giudice ha il potere - dovere di disapplicare la norma secondaria, ovvero il DPCM, la condotta di falso non è punibile perché la condotta non può essere considerata antigiuridica. Il GIP conclude quindi nel senso che: "siccome, nella specie, è costituzionalmente illegittima, e va dunque disapplicata, la norma giuridica contenuta nel DPCM che impone va la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione, il falso ideologico contenuto in tale atto è, necessariamente, innocuo; dunque, la richiesta di decreto penale non può trovare accoglimento." Un coniuge scopre di essere stato tradito leggendo alcuni messaggi su WhatsApp: ai fini dell'addebito, egli intende utilizzare in giudizio le conversazioni rinvenute. Si cambi scenario, pur rimanendo nell'ambito della famiglia: il marito, con un messaggino, riconosce di essere debitore nei confronti della moglie per una somma che la stessa gli ha prestato prima del matrimonio. Ed ancora, una coppia separata intende accordarsi sull'iscrizione del minore all'asilo nido. La moglie propone un determinato istituto ed il marito, con un messaggio WhatsApp, risponde: “va bene, sono d'accordo. Ok anche per la ripartizione a metà della retta dell'asilo”
. Talvolta lo strumento di WhatsApp costituisce la strada privilegiata per far valere alcuni diritti in giudizio (si pensi alla prova di una relazione fedifraga); più in generale, la messaggistica moderna, ed in particolare quella in esame, rappresenta una delle forme di comunicazione più diffuse ed immediate nelle relazioni fra le persone, anche all'interno della famiglia, Da qui la domanda: che efficacia probatoria possiede un messaggio WhatsApp nel processo civile e, in particolare, in quello familiare? Innanzitutto, l'orientamento dominante della Corte di Cassazione vuole che i contemporanei sistemi di messaggistica (e, fra questi, debbono annoverarsi i WhatsApp, gli SMS, le e-mail) abbiano l'efficacia di “piena prova” che l'art. 2712 c.c. attribuisce alle riproduzioni informatiche (Cass., 17 luglio 2019, n. 19155; nello stesso senso, Cass., 21 febbraio 2019, n. 5141, con riferimento ad un SMS; Cass., 14 maggio 2018, n. 11606, a proposito di un messaggio di posta elettronica senza firma). Inoltre, siffatta impostazione costituisce il punto di riferimento delle più recenti pronunce dei giudici di merito, che sono soliti ripetere massime di tenore analogo. Si è stabilito, così, che il riconoscimento del debito è valido anche quando è effettuato con messaggio di posta elettronica, “costituendo quest'ultimo un documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (Trib. Velletri, 16 aprile 2020; Trib. Venezia, 13 maggio 2020; Trib. Roma, 3 marzo 2020; nello stesso senso, negli anni precedenti, Trib. Milano, 3 settembre 2019; Trib. Gorizia, 12 agosto 2019, che si riferisce anche alle immagini MMS; Trib. Roma, 7 maggio 2019, a proposito della registrazione su un nastro magnetico; Trib. Torino, 23 dicembre 2016; Trib. Foggia, 27.11.2014). Resta da vedere, più da vicino, cosa prevede l'art. 2712 c.c.: “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (la parola “informatiche” è stata inserita dall'art. 23 del d.lgs. n. 82/2005, a decorrere dal 1° gennaio 2006). La parte contro cui vengono prodotte le riproduzioni “meccaniche” è ammessa ad effettuare il disconoscimento, su cui ora occorre intrattenersi. Il disconoscimento di un whatsapp Quella stessa giurisprudenza che, univocamente, attribuisce ai moderni sistemi di comunicazione l'efficacia di “piena prova” ex art. 2712 c.c., ammette la possibilità – sulla scorta dell'ultima parte della disposizione codicistica – di “disconoscere” il contenuto della messaggistica. L'efficacia probatoria di un messaggio WhatsApp, per la giurisprudenza maggioritaria, va ricondotta nell'alveo dell'art. 2712 c.c. Questo vuol dire che il messaggio ivi contenuto (acquisito nel processo in vario modo: si pensi ad uno screenshot ed alla successiva stampa) fa piena prova di ciò che è rappresentato, a meno che colui contro cui è prodotto non lo disconosca. Il disconoscimento non deve essere generico, ma chiaro, circostanziato ed esplicito. Pur a seguito di un disconoscimento di tal fatta, il giudice resta libero di accertare la rispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. In conclusione La giurisprudenza prevalente, se si eccettua la pronuncia di cui da ultimo si è dato conto, riconduce i moderni sistemi di messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c.: per questa via, essi formano “piena prova”, a meno che non vengano contestati in modo circostanziato. Peraltro, ancorché ciò avvenga, il giudice resta libero di accertare la corrispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova. Per una diversa tesi, anche se minoritaria, i messaggi contenuti su WhatsApp (e su altri sistemi simili di comunicazione) si sostanziano in documenti informatici liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 20, comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005; simmetricamente, e salva l'applicazione di una specifica normativa, sarà liberamente valutabile ogni riproduzione di quei documenti informatici. L'adesione a quest'ultima ricostruzione, si badi, non vuol sottendere la considerazione che ai WhatsApp sia da attribuire una trascurabile valenza Anzi, ove il messaggio sia prodotto in giudizio attraverso uno screenshot (poi stampato) che contenga, in alto, il nominativo del suo autore, ben difficilmente quest'ultimo riuscirà a smentire la paternità della dichiarazione. Di certo non varranno generiche contestazioni, né l'asserzione (priva di ogni riscontro) che il cellulare è finito in mani di altre persone le quali hanno scritto messaggi apparentemente riferibili a colui che ha scaricato l'applicazione sul telefonino. Un dato, in definitiva, può considerarsi pacifico: al di là del dibattito sulla riconducibilità o meno della moderna messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c., le dichiarazioni giuridicamente rilevanti, contenute su WhatsApp, costituiscono attualmente un importante strumento di prova che il giudice ha a disposizione per accogliere o respingere le pretese delle parti in causa. Il revenge porn è la diffusione sul web di immagini o video privati a sfondo sessuale a scopi vendicativi e senza il consenso della persona ritratta • Cosa significa Revenge Porn • Revenge porn: in cosa consiste • I "ricatti sessuali" in Italia: i casi più noti • Come difendersi dal revenge porn • I ddl contro il revenge porn • Il revenge porn diventa reato • Differenze con sexting Cosa significa Revenge Porn La locuzione di origine anglosassone "revenge porn", o anche "revenge pornography", associa la parola "vendetta" (revenge) a quella di pornografia, lasciando subito intendere la portata del comportamento che la stessa sta a indicare. La nozione è ormai di uso tristemente comune, complice il moltiplicarsi di episodi di "vendetta porno" ai danni di innumerevoli vittime, uomini e (prevalentemente) donne, che si sono ritrovate violate nella loro sfera intima e hanno visto la propria immagine diffondersi in maniera "virale" senza averlo mai concesso o, addirittura, dopo essere state immortalate a loro insaputa. Revenge porn: in cosa consiste Il revenge porn può, dunque, essere identificato nella pubblicazione, o minaccia di pubblicazione (anche a scopo di estorsione), di fotografie o video che mostrano persone impegnate in attività sessuali o ritratte in pose sessualmente esplicite, senza che ne sia stato dato il consenso dal diretto interessato, ovvero la persona o una delle persone coinvolte. La cronaca ha dimostrato come a perpetrare il ricatto sessuale siano soprattutto persone legate alla vittima da un rapporto sentimentale (coniugi, compagni/e, fidanzati/e), che agiscono in seguito alla fine di una relazione per "punire", umiliare o provare a controllare gli ex facendo uso delle immagini o dei video in loro possesso. Può trattarsi, ad esempio, di selfie scattati dalla stessa vittima e inviati all'ex partner, oppure di video e fotografie scattate in intimità con l'idea che dovessero rimanere nella sfera privata oppure, addirittura, di scatti e riprese avvenuti di nascosto, senza che una delle parti ne fosse consapevole. La condivisione di tali immagini, che può avvenire in rete, ma anche attraverso e-mail e cellulari, conduce a un risultato aberrante per le vittime: umiliazione, lesione della propria immagine e della propria dignità, condizionamenti nei rapporti sociali e nella ricerca di un impiego. Molte vittime di revenge porn hanno riferito agli psicologi che l'impatto della diffusione su larga scala di immagini scattate privatamente può essere paragonato a quello di una vera e propria violenza sessuale. I "ricatti sessuali" in Italia: i casi più noti Il fenomeno, purtroppo, ha visto una crescita esponenziale negli ultimi anni anche in Italia dove gli episodi di vendetta pornografica hanno talvolta assunto contorni drammatici, risolvendosi nella morte delle vittime, esasperate dalla situazione creatasi a seguito della diffusione dei proprio video o scatti privati. Il caso di Tiziana Cantone Il pensiero va subito a Tiziana Cantone, giovane donna napoletana i cui video hard avevano iniziato a circolare in rete, ma anche su Whatsapp e poi su Facebook, diffondendosi con quella incontrollabile "viralità" a cui i social ci hanno tristemente abituati. Una vicenda che, nonostante la battaglia legale intrapresa a difesa del proprio diritto all'oblio, si è conclusa con il suicidio della vittima. Il caso di Giulia Sarti Ma Tiziana, purtroppo, non è (e non è stata) la sola vittima di questa "piaga sociale" che ha compromesso molte esistenze e costretto a estenuanti battaglie per ottenere la difesa dei propri diritti e della propria dignità. La vicenda dell'ex presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Giulia Sarti, le cui immagini private sono state diffuse online divenendo presto virali a causa delle incessanti condivisioni, ha assunto i contorni di un vero e proprio caso politico. Un fenomeno che ha portato il Garante per la privacy a intervenire per richiamare "l'attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti". Come difendersi dal revenge porn Molti paesi, stante le dimensioni sempre più preoccupati che ha assunto il fenomeno, hanno deciso di seguire una linea dura e adottare normative ad hoc per contrastare e perseguire il revenge porn: ciò è avvenuto, ad esempio, in Germania, Israele e Regno Unito, e in trentaquattro Stati degli USA. In Italia, fino all'agosto 2019, non esisteva alcuna legge specifica in materia e l'unica possibilità riconosciuta alle vittime era quella di fare riferimento alla normativa sui reati di diffamazione, estorsione, violazione della privacy e trattamento scorretto dei dati personali. Ciò, tuttavia, è apparso insufficiente in relazione alla gravità e alla peculiarità del fenomeno. E con la legge Codice Rosso è stato introdotto il reato di revenge porn anche nel nostro paese, previsto e punito dall'art. 612-ter del codice penale. I ddl contro il revenge porn Le vicende di cronaca hanno avuto l'effetto di animare il dibattito nelle aule parlamentari, soprattutto a seguito del caso dell'on. Sarti. Tra i vari ddl presentati, con l'obiettivo di introdurre una fattispecie di reato ad hoc, è emerso quello a firma della senatrice di M5S, Elvira Evangelista, di cui è stato relatore il senatore leghista Andrea Ostellari. Tuttavia, già nel settembre 2016, Forza Italia aveva ritenuto necessario prendere posizione e punire il revenge porn tramite una norma ad hoc nel Codice penale destinata a perseguire la diffusione di immagini e video sessualmente espliciti. Alla proposta erano seguiti altri due disegni di legge: uno, presentato a Montecitorio il 9 gennaio (primo firmatario Galeazzo Bignami) e l'altro presentato in Senato il 12 marzo scorso (primo firmatario Enrico Aimi). Il terzo disegno di legge proposto da Forza Italia, prima firmataria Sandra Savino, è stato presentato il 5 marzo in Senato e assegnato alla II commissione Giustizia. In generale, i contenuti dei provvedimenti, sia quelli presentati da FI che quelli a firma pentastellata, sono apparsi tra loro assai affini e hanno registrato una larga convergenza in materia tra tutte le forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione. Leggi anche: I ddl contro il revenge porn Il revenge porn diventa reato Gli intenti sono stati tradotti effettivamente in legge con il c.d. "Codice Rosso", ovvero con le modifiche al codice penale e al codice di procedura penale volte a tutelare le vittime di violenza domestica e di genere introdotte dalla Legge n. 69/2019, in vigore da agosto 2019. Il reato di revenge porn: art. 612-ter del codice penale La legge ha introdotto nel codice penale, all'articolo 612-ter, una fattispecie ad hoc, volta a sanzionare il fenomeno del c.d. revenge porn. Si tratta del delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate.
Si punta a punire anche la condotta degli eventuali "condivisori" delle immagini diffuse dall'autore del reato. La stessa pena, dunque, si applicherà anche nei confronti di chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta al fine di recare nocumento agli interessati.
Differenze con sexting Diverso dal revenge porn è il sexting. Quest'ultimo, infatti, consiste nell'invio di messaggi, testi o immagini a sfondo sessuale tramite il cellulare o altri strumenti informatici. Non c'è quindi la diffusione pubblica ma si tratta di uno scambio tra due soggetti, spesso (ma non necessariamente) entrambi consenzienti. Il termine derivato dalla fusione di sex (sesso) con texting (invio di messaggi elettronici). La Corte di Cassazione con l’ordinanza depositata il 15.12.2020 ha posto la parola fine sulla vicenda che era nata a seguito di un’azione avviata nel 2014 da Avvocatura per i diritti LGBTI- Rete Lenford per far accettare il carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese dall’avvocato Carlo Taormina durante la trasmissione radiofonica “La Zanzara”, il quale aveva dichiarato a più riprese di non voler assumere collaboratori omosessuali nel suo studio legale. Il ricorso proposto dal Taormina è stato totalmente rigettato.
La Corte di Cassazione ha tenuto conto dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia UE che con la sentenza del 23.4.2020 aveva risolto le questioni pregiudiziali poste dalla Cassazione stessa. Il Giudice di legittimità ha statuito che nel caso di discriminazioni collettive senza vittime identificabili le norme di diritto nazionale hanno una portata più ampia di quella prevista dal diritto dell’Unione Europea e l’interesse ad agire per avviare un’azione per accertare tale discriminazione è di tutte le associazioni rappresentative dell’interesse collettivo leso, la cui rappresentatività deve essere accertata sulla base dell’esame del loro statuto e delle finalità di tutela dell’interesse assunte a scopo dell’associazione stessa. Nel merito delle dichiarazioni oggetto della causa la Cassazione anche in questo caso ha applicato i criteri annunciati dalla Corte di Giustizia UE, confermando la natura non ipotetica delle stesse e il loro contenuto discriminatorio, essendo il protagonista della vicenda un avvocato molto noto e titolare di uno studio professionale. La condanna non si pone in contrasto con il diritto alla libertà d’espressione di cui all’articolo 21 della Costituzione, perché tale diritto deve essere contemperato con la tutela dei diritti inviolabili di cui agli articoli 2.3 della Costituzione e con la tutela del diritto effettivo al lavoro di cui all’articolo 4 e 35 della Costituzione. Si tratta di un precedente molto importante in materia di diritto antidiscriminatorio anche perché i principi enunciati dalla Corte di Giustizia UE saranno applicabili a tutti gli stati dell’Unione Europea. Alibi è un termine latino che viene usato largamente nella lingua italiana e che, tradotto letteralmente, significa "altrove".
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Michele PotèAvvocato a tempo pieno, già vicepresidente della Rete Lenford. Categorie |