Un coniuge scopre di essere stato tradito leggendo alcuni messaggi su WhatsApp: ai fini dell'addebito, egli intende utilizzare in giudizio le conversazioni rinvenute. Si cambi scenario, pur rimanendo nell'ambito della famiglia: il marito, con un messaggino, riconosce di essere debitore nei confronti della moglie per una somma che la stessa gli ha prestato prima del matrimonio. Ed ancora, una coppia separata intende accordarsi sull'iscrizione del minore all'asilo nido. La moglie propone un determinato istituto ed il marito, con un messaggio WhatsApp, risponde: “va bene, sono d'accordo. Ok anche per la ripartizione a metà della retta dell'asilo”
. Talvolta lo strumento di WhatsApp costituisce la strada privilegiata per far valere alcuni diritti in giudizio (si pensi alla prova di una relazione fedifraga); più in generale, la messaggistica moderna, ed in particolare quella in esame, rappresenta una delle forme di comunicazione più diffuse ed immediate nelle relazioni fra le persone, anche all'interno della famiglia, Da qui la domanda: che efficacia probatoria possiede un messaggio WhatsApp nel processo civile e, in particolare, in quello familiare? Innanzitutto, l'orientamento dominante della Corte di Cassazione vuole che i contemporanei sistemi di messaggistica (e, fra questi, debbono annoverarsi i WhatsApp, gli SMS, le e-mail) abbiano l'efficacia di “piena prova” che l'art. 2712 c.c. attribuisce alle riproduzioni informatiche (Cass., 17 luglio 2019, n. 19155; nello stesso senso, Cass., 21 febbraio 2019, n. 5141, con riferimento ad un SMS; Cass., 14 maggio 2018, n. 11606, a proposito di un messaggio di posta elettronica senza firma). Inoltre, siffatta impostazione costituisce il punto di riferimento delle più recenti pronunce dei giudici di merito, che sono soliti ripetere massime di tenore analogo. Si è stabilito, così, che il riconoscimento del debito è valido anche quando è effettuato con messaggio di posta elettronica, “costituendo quest'ultimo un documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (Trib. Velletri, 16 aprile 2020; Trib. Venezia, 13 maggio 2020; Trib. Roma, 3 marzo 2020; nello stesso senso, negli anni precedenti, Trib. Milano, 3 settembre 2019; Trib. Gorizia, 12 agosto 2019, che si riferisce anche alle immagini MMS; Trib. Roma, 7 maggio 2019, a proposito della registrazione su un nastro magnetico; Trib. Torino, 23 dicembre 2016; Trib. Foggia, 27.11.2014). Resta da vedere, più da vicino, cosa prevede l'art. 2712 c.c.: “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (la parola “informatiche” è stata inserita dall'art. 23 del d.lgs. n. 82/2005, a decorrere dal 1° gennaio 2006). La parte contro cui vengono prodotte le riproduzioni “meccaniche” è ammessa ad effettuare il disconoscimento, su cui ora occorre intrattenersi. Il disconoscimento di un whatsapp Quella stessa giurisprudenza che, univocamente, attribuisce ai moderni sistemi di comunicazione l'efficacia di “piena prova” ex art. 2712 c.c., ammette la possibilità – sulla scorta dell'ultima parte della disposizione codicistica – di “disconoscere” il contenuto della messaggistica. L'efficacia probatoria di un messaggio WhatsApp, per la giurisprudenza maggioritaria, va ricondotta nell'alveo dell'art. 2712 c.c. Questo vuol dire che il messaggio ivi contenuto (acquisito nel processo in vario modo: si pensi ad uno screenshot ed alla successiva stampa) fa piena prova di ciò che è rappresentato, a meno che colui contro cui è prodotto non lo disconosca. Il disconoscimento non deve essere generico, ma chiaro, circostanziato ed esplicito. Pur a seguito di un disconoscimento di tal fatta, il giudice resta libero di accertare la rispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. In conclusione La giurisprudenza prevalente, se si eccettua la pronuncia di cui da ultimo si è dato conto, riconduce i moderni sistemi di messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c.: per questa via, essi formano “piena prova”, a meno che non vengano contestati in modo circostanziato. Peraltro, ancorché ciò avvenga, il giudice resta libero di accertare la corrispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova. Per una diversa tesi, anche se minoritaria, i messaggi contenuti su WhatsApp (e su altri sistemi simili di comunicazione) si sostanziano in documenti informatici liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 20, comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005; simmetricamente, e salva l'applicazione di una specifica normativa, sarà liberamente valutabile ogni riproduzione di quei documenti informatici. L'adesione a quest'ultima ricostruzione, si badi, non vuol sottendere la considerazione che ai WhatsApp sia da attribuire una trascurabile valenza Anzi, ove il messaggio sia prodotto in giudizio attraverso uno screenshot (poi stampato) che contenga, in alto, il nominativo del suo autore, ben difficilmente quest'ultimo riuscirà a smentire la paternità della dichiarazione. Di certo non varranno generiche contestazioni, né l'asserzione (priva di ogni riscontro) che il cellulare è finito in mani di altre persone le quali hanno scritto messaggi apparentemente riferibili a colui che ha scaricato l'applicazione sul telefonino. Un dato, in definitiva, può considerarsi pacifico: al di là del dibattito sulla riconducibilità o meno della moderna messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c., le dichiarazioni giuridicamente rilevanti, contenute su WhatsApp, costituiscono attualmente un importante strumento di prova che il giudice ha a disposizione per accogliere o respingere le pretese delle parti in causa.
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Michele PotèAvvocato a tempo pieno, già vicepresidente della Rete Lenford. Categorie |