La legge non è uguale per tutti: la Cassazione salva i politici e punisce i cittadini. Ecco come.25/10/2022 Per la Cassazione, è corretta la revoca del mantenimento al figlio di 32 anni che non studia e fa lavori saltuari da anni, non si può abusare del mantenimento dei genitori
• Il figlio maggiorenne non deve abusare del mantenimento dei genitori • Contraria alla legge la revoca del mantenimento al figlio? • I genitori mantengono i figli se c'è un progetto educativo o di formazione Il figlio maggiorenne non deve abusare del mantenimento dei genitori La Corte di Cassazione ancora una volta si pronuncia sul tema dei figli che non desiderano continuare i propri studi, confermando la correttezza della motivazione della sentenza impugnata nel disporre la revoca del mantenimento al figlio di 32 anni, che da anni fa lavori saltuari e ha smesso di studiare e formarsi. In base al principio di auto responsabilità il figlio non può infatti abusare a vita del mantenimento dei genitori anche perché questo è dovuto quando è finalizzato alla realizzazione di un percorso educativo e di formazione. Nel momento in cui questo manca la decisione al riguardo deve essere assunta con un rigore che cresce al crescere dell'età del beneficiario. Queste le importanti conclusioni contenute nella ordinanza della Cassazione n. 32406/2021 La vicenda processuale Tutto ha inizio perché in sede di appello la Corte riforma in parte la decisione di primo grado, revocando anche il mantenimento che il padre deve al figlio maggiorenne. Contraria alla legge la revoca del mantenimento al figlio? La ex moglie, a cui la Corte ha revocato l'assegnazione della casa famigliare, ricorre in Cassazione facendo valere la tempestività del ricorso e censurando la decisione della Corte di Appello per violazione di legge sia per quanto riguarda la revoca dell'assegnazione della casa coniugale in suo favore che la revoca del mantenimento che il padre versava in favore del figlio maggiorenne. I genitori mantengono i figli se c'è un progetto educativo o di formazione La Corte però dichiara il ricorso inammissibile e sulla decisione relativa alla revoca del mantenimento disposto in favore del figlio maggiorenne, dichiara di condividere la motivazione del giudice dell'impugnazione. La Corte di merito ha infatti rilevato che il figlio trentaduenne ha abbandonato gli studi a 16 anni, ha frequentato corsi di formazione nel 2011 e nel 2012, ha maturato qualche esperienza lavorativa saltuaria anche se non emergono difficoltà che gli rendono impossibile inserirsi in un contesto lavorativo. Con la sua decisione la Corte di merito non ha fatto altro che dare attuazione al principio di auto responsabilità "che impone al figlio di non abusare del diritto di essere mantenuto dal genitore oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione". Corretta altresì la valutazione da parte della Corte degli indici di rilevanza adottati, che le hanno fatto ritenere necessario dover ponderare la sussistenza dei requisiti necessari al mantenimento con un giudizio che è tanto più rigoroso quanto più aumenta l'età del figlio. Del tutto inammissibile quindi appare il ricorso della madre perché non si confronta affatto con le argomentazioni della decisione di merito e perché si limita ad affermare in modo assai generico che in giudizio non è stata dimostrata l'indipendenza economica del figlio né la percezione di un reddito commisurato alla competenza e professionalità acquisito, dimostrando in questo modo la volontà di ottenere un nuovo giudizio di merito dei fatti attraverso la denuncia di un vizio di legge. Nell’era digitale in cui viviamo, comunicare è diventato sempre più semplice e veloce.
Una notizia pubblicata sul web, un post su un social network, un commento inappropriato su una pagina sono in grado di raggiungere facilmente un numero imprecisato di persone. L’enorme effetto di “cassa di risonanza” delle informazioni pubblicate sul web, spesso a prescindere dalla loro effettiva veridicità, può risultare pericoloso ogniqualvolta l’oggetto del messaggio diffuso abbia carattere denigratorio ed infamante nei confronti del suo destinatario. Tuttavia, pubblicare su pagine Facebook le esperienze negative dei clienti di un esercizio commerciale costituisce azione meritoria al fine di contrastare possibili operazioni di pubblicità ingannevole e scongiurare che altri malcapitati soggetti subiscano la medesima potenziale lesione patrimoniale. Premessa. Il Tribunale di Torino affronta il delicato tema della potenziale portata diffamatoria di messaggi e commenti inseriti in blog di pagine Facebook e del particolare ruolo rivestito dall'amministratore della pagina web. Il Giudice riconosce il valore economico e sociale delle recensioni e dei commenti nell'attuale contesto informatizzato. Tali recensioni soprattutto se fondate su fatti realmente accaduti, non possono essere considerati strumento diffamatorio. Inoltre, la responsabilità dei commenti non può essere attribuita all'amministratore delle pagine web, se non quando lo stesso appresa la portata lesiva dei contenuti li abbia consapevolmente mantenuti sulla pagina digitale. La vicenda processuale La vicenda processuale vede protagonista una concessionaria di autoveicoli usati che cita dinanzi al Tribunale l'amministratore di una pagina Facebook, richiedendone la condanna al risarcimento del danno subito, nella misura di € 150.000,00, per via di commenti qualificati come denigratori, diffamatori e screditanti, apparsi sulla pagina web che l'amministratore non avrebbe rimosso. A sostegno delle proprie ragioni la concessionaria riporta alcuni fatti qualificati come diffamatori. Un post apparso sulla pagina amministrata dal convenuto, nel quale un cliente della concessionaria lascia una recensione negativa in quesnto l'auto appena acquistata si è rivelata essere gravemente denneggiata. Una seconda recensione di un cliente insoddisfatto per l'acquisto di un veicolo con programma garanzia che però aveva presentato problemi al motore. Sotto entrambe le recensioni anche soggetti terzi hanno contribuito a condividere le loro esperienze negative con la concessionaria, talvolta contribuendo in maniera offensiva e violenta. Inoltre la concessionaria sosteneva che l'amministratore avesse un interesse concreto a lanciare verso l'attrice una vera e propria campagna diffamatoria, allo scopo di ledere la sua affidabilità commerciale, in quanto soggetto vicino ad un'altra concessionaria concorrente. La decisione del Tribunale. Il Tribunale parte da un punto incontrovertibile e condiviso dalle parti di causa. Entrambi i fatti commentati sulla pagina Facebook posta sotto accusa erano veri. Il Tribunale inoltre non si stupisce della scelta operata dai clienti nell'affidare immediatamente ad una pagina web le lamentele, in considerazione dell'attuale contesto digitalizzato. In relazione al peculiare ruolo rivestito dall'amministratore della pagina web il Tribunale afferma che, alla luce dei principi espressi dalla cassazione n. 16751/2018 solo il direttore di una testata giornalistica è responsabile per i contenuti diffamatori apparsi sulla testata, non lo è invece l'amministratore di una pagina FB per i contenuti dei commenti presenti nel blog e nei forum. Pur essendo vero che il blogger è chiamato a rispondere dei contenuti denigratori solo quando pur prendendo cognizione degli stessi li mantenga sulla pagina in modo consapevole (in tal senso Cass. civ. n. 12546/2019). Nel caso di specie il Tribunale esclude questa consapevolezza da parte dell'amministratore della pagina FB, che, a suo giudizio non può esercitare un monitoraggio continuo 24 ore su 24 per cancellare immediatamente un post offensivo. Non viene sprecata dal giudice di primo grado l'occasione per affermare l'importanza sociale del diritto di critica, anche online, che a suo avviso deve essere tutelato e protetto, soprattutto ove la critica trovi, come nel caso esaminato, fondamento nella realtà dei fatti. Concludendo. Il Tribunale evidenzia l'importanza sociale, ma anche economica del diritto di critica che ove non adeguatamente tutelato si trasformerebbe nel tentativo di mettere a tacere tutte le recensioni negative. La domanda di parte attrice veniva quindi rigettata con condanna alla rifusione delle spese processuali affrontate da parte convenuta. Fonti: Diritto e Giustizia Aveva accostato al circolo Mario Mieli termini come “pedofilia, necrofilia e coprofagia”
Nuova condanna per diffamazione per Silvana De Mari, il medico torinese anti gay e No Vax. La Corte d’Appello di Torino, confermando il primo grado, l’ha condannata per gli insulti al circolo Lgbt intitolato a Mario Mieli che si è costituito parte civile con l’avvocato Michele Potè. L’accusa era di aver accostato termini come pedofilia, necrofilia e coprofagia al circolo. Gli avvocati difensori, Gianluca Visca e Giovanni Formicola, avevano replicato che non si trattava di critiche rivolte al circolo o ai suoi attivisti. Non è la prima volta che la discussa dottoressa viene condannata per diffamazione. Nel 2017 aveva definito le associazioni Lgbt “criminali contro l’umanità” e per questo era stata chiamata in giudizio dal Coordinamento Torino Pride, dal Consiglio regionale del Piemonte e dal Comune di Torino. Il Coordinamento e Rete Lenford si erano costituiti parte civile e nel 2018 la dottoressa De Mari aveva dovuto pagare una multa di 1.500 euro e aveva versato un risarcimento di 5.000 euro. Le posizioni della dottoressa De Mari sono note. Dopo aver militato nel partito di Magdi Cristiano Allam, si è avvicinata al Popolo della Famiglia. In aperto contrasto con l’American Psychological Association e con l’Ordine nazionale degli psicologi, la dottoressa De Mari nega l’esistenza dell’omosessualità e nel gennaio 2017 ha sostenuto che l’omofobia sarebbe un diritto umano. Recentemente era tornata alla ribalta a causa del Covid. La dottoressa, infatti, ha negato ripetutamente l’importanza della mascherina e del distanziamento sociale e ha consigliato più volte di contrarre la malattia per sviluppare anticorpi. Inoltre ha definito i vaccini «di estrema pericolosità» e nel settembre 2021 è stata sospesa dall’Ordine dei medici di Torino dall’esercizio di attività professionali implicanti contatti interpersonali per essersi rifiutata di vaccinarsi nonostante l’obbligo previsto per legge per la categoria dei sanitari. |
Michele PotèAvvocato a tempo pieno, già vicepresidente della Rete Lenford. Categorie |